Questo corso rappresenta da
un certo punto di vista il contributo più importante del curricolo di Scienze
Naturali del Liceo Dini alla
storia del Novecento, considerata la giovane età delle due scienze richiamate
nel titolo. Ovviamente non è possibile partire da troppo lontano. Un buon punto
di avvio può essere quello di arrivo del nostro
discorso in campo genetico e in campo chimico.
Nel XX° secolo le branche più rivoluzionarie della biologia sono state la Genetica, la Teoria dell’evoluzione, La Biochimica e la Biologia molecolare.
In particolare è ormai un luogo comune che la prima metà del ‘900 sia stata segnata dai rivoluzionari progressi delle scienze fisiche, mentre la seconda metà sia stata dominata dagli sviluppi della biologia. E’ appena il caso di ricordare che le rivoluzioni sono preannunciate da eventi e processi che le precedono e in parte le preparano.
Qual è stato il percorso della Chimica fino alle soglie degli eventi che ci interessano?
In che modo si è intersecato il suo cammino con quello della Biologia?
Partiamo per comodità da alcune considerazioni sulla Chimica Organica, facendo cronologicamente un passo indietro.
Questa scienza delimita sempre meglio il suo campo d’azione nel corso della seconda metà dell’800. Fino allora i chimici si erano limitati ad isolare, analizzare e trasformare i vari composti traendoli dalla enorme varietà esistente in natura. Il problema cruciale era rappresentato dalla incapacità di sintetizzarli. Per spiegare la sicurezza e la precisione con cui i vari “pezzi” delle diverse molecole organiche venivano spostati e ricombinati all’interno delle cellule, si era indotti a postulare l’esistenza di una forza vitale perché le conoscenze acquisite erano insufficienti a riprodurre in laboratorio le stesse imprese dei viventi.
Nella seconda metà del secolo:
· si scopre che le sostanze che fluiscono attraverso gli organismi si trasformano grazie a un flusso di energia associato alla materia che la termodinamica riesce a calcolare;
· il controllo della reattività chimica viene fondato su crescenti conoscenze relative alla tetravalenza del carbonio e alle caratteristiche dei gruppi funzionali;
· infine la chimica svela le funzioni dei microrganismi, eliminando gli ultimi residui della generazione spontanea.
Ancora alla metà dell’800 l’idea dominante intorno all’origine delle fermentazioni era quella sostenuta dal chimico tedesco J. von Liebig che riteneva la fermentazione un fenomeno puramente chimico.
Nel suo Mémoire sur la fermentation appellée lactique Pasteur sostiene invece che “la fermentazione si mostra correlata alla vita”.
Nella fermentazione alcolica in particolare egli notò la presenza di globuli il cui comportamento era quello di esseri viventi microscopici. Egli scopre che laddove vi è fermentazione compaiono composti otticamente attivi, esistenti in speciali forme isomere che costituiscono l’immagine speculare l’una dell’altra. Pasteur ritiene che soltanto i viventi sono in grado di introdurre un’asimmetria in alcune delle loro molecole. Poiché questi studi mirano in partenza -su commissione dei produttori di vino francesi- a ricercare le cause delle “malattie” della fermentazione, Pasteur arriva a scoprire anche che certe “deviazioni” dalla fermentazione normale sono riconducibili alla presenza di particolari microrganismi estranei. Giunto a questo punto egli fu naturalmente portato a chiedersi quale fosse l’origine di questi esseri microscopici, capaci di indurre importanti fenomeni di trasformazione delle sostanze fermentescibili. Fu così che si trovò ad affrontare lo studio della “generazione spontanea”, antica teoria esplicativa dell’origine della vita risalente almeno ad Aristotele. Nel XVIIo secolo tale teoria fu dimostrata falsa da Francesco Redi per quello che riguarda l’origine di mosche e insetti di vario tipo, ma rimase ben viva soprattutto con riferimento al mondo dei microrganismi. Gli studi di Pasteur, condotti nell’ambito di una memorabile contesa scientifica con Félix Pouchet, gli consentirono di aggiudicarsi nel 1861 il premio che l’Accademia delle scienze francese aveva offerto a chi “con ben condotti esperimenti avesse gettato nuova luce sulla questione delle generazioni spontanee”.
In conclusione si può così riassumere il contributo
di Pasteur:
·
infligge un colpo definitivo alla concezione della
generazione spontanea;
·
attribuisce funzioni precise alla invisibile realtà dei
microrganismi, scoperti nel ‘600, ma rimasti da allora ignorati e “senza
scopo”;
·
fonda il principio di specificità, a due livelli: ogni
microrganismo è definito dalle specifiche reazioni cui può sottoporre materiali
prelevati dall’ambiente /ogni malattia è specificamente determinata da un
agente microbico (questi concetti danno un forte impulso alla ricerca biomedica);
·
chiarisce che le attività dei microrganismi sono
descrivibili in generale mediante classiche equazioni chimiche e pertanto si
modifica il legame tra la chimica e la biologia.
Tuttavia si rianima il Vitalismo
perché Pasteur ritiene di aver fornito le prove che
l’attività fermentativa e l’introduzione di un’asimmetria nelle molecole, per
quanto descrivibili con i mezzi e il linguaggio della chimica, restino
indissolubilmente legate alla presenza di organismi
vivi e delle loro strutture organizzate.
Agli inizi del ‘900 però,
i fratelli Buchner riescono a riprodurre le stesse attività
fermentative in assenza di organismi vivi, ma in presenza dei loro estratti
cellulari (tale pratica non sarà mai più abbandonata da allora). Questo
risultato assesta un colpo importante all’approccio vitalista
e contemporaneamente mette a disposizione dei ricercatori il metodo degli
estratti cellulari, capace di incentivare fortemente
l’analisi del contenuto cellulare nei diversi momenti della vita delle cellule.
Comincia così ad assumere i suoi lineamenti la
Biochimica, interessata a identificare i componenti
chimici anche a livello delle strutture cellulari, a individuare reagenti,
intermedi e prodotti delle reazioni, gli scambi energetici, la velocità e i
meccanismi delle reazioni, nonché i sofisticati sistemi adoperati dalle cellule
per regolarle.
La nuova scienza, nata all’interno della
fisiologia, se ne rende sempre più autonoma col passare dei primi decenni del ‘900, e finisce per assumere una posizione centrale
rispetto a numerose e fondamentali discipline biologiche come la Fisiologia
animale e vegetale, la Patologia, l’Etologia e l’Ecologia, ecc..
La sua logica e il suo metodo di lavoro sono
dichiaratamente RIDUZIONISTI: i sistemi complessi che essa studia sono
decomposti in componenti sempre più semplici fino a giungere
al livello organizzativo atomico-molecolare. La
Biochimica ha interesse non solo a disegnare un’"anatomia” molecolare del
vivente, ma anche una fisiologia, ovvero una mappa delle relazioni funzionali e
dinamiche che legano tra loro le strutture molecolari.
Essa s’impegna a decifrare le centinaia di reazioni
chimiche a tappe che avvengono in ogni cellula, prima distruggendo l’unità di
quest’ultima e poi ricostruendola a ritroso, anche grazie al confronto fra le
reazioni in vitro e il comportamento
degli organismi integri. Questa mappa costituirà la trama del METABOLISMO.
Fondamentale apparirà allora -fra gli altri- il
contributo fornito dalla biochimica alla consapevolezza di una sostanziale
unità del mondo vivente, al di là della sua
straordinaria varietà di forme e di stili di vita, dato che le vie e gli snodi
essenziali del labirinto metabolico appaiono identici in tutti gli organismi
viventi.
La chimica unitaria conferma, al livello
organizzativo proprio della sua descrizione, la comune origine del mondo
vivente.
Un altro concetto nuovo e importantissimo messo in
luce dalla biochimica è la straordinaria precisione e specificità della chimica
cellulare, rese possibili dalla mediazione degli enzimi. Da qui l’esigenza di
caratterizzarne sempre meglio la natura che, tra l’altro, viene
associata definitivamente, dopo molte incertezze, alla classe delle proteine.
Enzimi e proteine porranno allora alla giovane biochimica altri problemi, sul
piano del metodo di indagine, delle tecnologie, ma
anche degli strumenti concettuali.
Prima di accennare a questo passaggio, conviene
fare un passo indietro e accennare brevemente il percorso storico della
Biologia a partire dal punto in cui l’avevamo lasciata
con la genetica mendeliana.
Il termine ultimo dell’analisi genetica è il GENE,
ma la genetica classica appartiene a quel campo della biologia che studia
l’organismo nel suo insieme e le popolazioni. Essa applica agli organismi il
metodo della scatola nera: non li
dissocia in parti più semplici (anche se la logica riduzionista
si manifesta chiaramente nella tendenza a trattare l’organismo come una
“collezione” di caratteri in qualche misura atomizzati).
Com’è immaginato l’organismo? Nella sua profondità
i geni sono allineati nei cromosomi come tante perline di una collana; sulla
“superficie” della scatola nera si manifestano i “terminali” di
ogni singolo gene: i caratteri; i cromosomi si muovono con movimenti
semplici; tutti i mutamenti ereditabili riscontrati a livello dei caratteri in
superficie rinviano a cambiamenti nella natura e/o disposizione delle perle
della collana; l’eredità è governata dalle leggi del caso esprimibili
matematicamente.
Che cosa resta di oscuro?
·
la natura dell’unità ereditabile;
·
il meccanismo, paurosamente complesso, che sta fra il
gene e il carattere espresso.
Fino a tutta la prima metà del ‘900
il gene assume le caratteristiche di un ente sempre più astratto, quasi di un
oggetto puramente razionale. Il compito dei genetisti, verso la metà di questo
secolo, è quello di restituire corporeità a questi enti e ai meccanismi con cui
essi agiscono. Per compiere questo salto però, il metodo classico -osservazione
dei caratteri e del loro riassortimento attraverso le
generazioni, misura delle frequenze della variazione e costruzione delle mappe
cromosomiche di associazione- non è più sufficiente.
Diventa essenziale una collaborazione con la
chimica.
Il dialogo fra queste due discipline si infittisce dunque al culmine di percorsi quasi sempre
separati, ma che, alla metà del ‘900, convergono nello sforzo di fare luce
sulla logica molecolare del vivente
ai due livelli che concretamente la storia ha posto in primo piano: il
funzionamento del metabolismo e la natura della eredità.
Questi livelli, inizialmente separati, mostreranno
col procedere della ricerca i fitti intrecci che li connettono dentro il
confine unitario dell’organismo vivente: presto, per esempio, si parlerà di errori genetici del metabolismo come pure di metabolismo
del DNA.
Da entrambi i versanti la
giovane biochimica si scontra con l’inadeguatezza
dei suoi metodi tradizionali: come già si è accennato, l’indagine porta ben
presto a evidenziare il ruolo essenziale degli enzimi e delle proteine in
genere, e quindi a misurarsi con la inedita complessità che caratterizza queste
macromolecole. In particolare è l’analisi della complessa architettura di tali oggetti ad esigere l’apporto di nuove
tecniche, ma anche di nuovi concetti. Questi saranno disponibili alla metà del ‘900 grazie al contributo congiunto della Fisica, della
Chimica dei Polimeri, della Teoria della Informazione.
Per costituirsi in scienza autonoma, la Biologia
aveva dovuto separarsi radicalmente dalla fisica e dalla chimica. A metà di
questo secolo, per fare avanzare l’indagine sulla struttura e sul funzionamento
dei viventi, essa torna dunque a riassociarsi a
quelle più antiche scienze. Da questa “unione” nascerà la Biologia Molecolare.