BOLLETTINO DELLA SEZIONE CAMPANA

GLI STATUTI DELLA BAGLIVA DI MARSICONUOVO NELLA STORIA DELLA LINGUA
Nicola De Blasi

 

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Quando si analizza dal punto di vista storico un testo come gli "Statuti della bagliva di Marsiconuovo", pubblicato da A. Lotierzo nel 1999 (Curto, Napoli) si riesce a scoprire più di un aspetto specifico della vita quotidiana di un piccolo centro lucano. Analizzando la lingua, invece, non si possono individuare caratteristiche specifiche dello stesso piccolo centro: ciò dipende da una serie di motivazioni, che è il caso di ricordare brevemente. Questo è un testo scritto in lingua volgare, non più in latino, ma è un volgare che non conserva tratti linguistici specifici di Marsiconuovo.
In effetti, se leggessimo questo testo senza sapere che si riferisce a Marsico, noi non potremmo arrivare alla sua localizzazione precisa, forse non riusciremmo a localizzarlo nemmeno in Basilicata; potremmo semplicemente sostenere che è un testo di area meridionale, per certi aspetti riconducibile ad un’area compresa tra Campania, Calabria e Basilicata; capiremo che non è di area orientale (o pugliese) ma non potremmo essere più precisi. Tuttavia un testo del genere ha una sua importanza linguistica, anche se non ci consente un riconoscimento di caratteristiche locali molto spiccate. Conviene, perciò, discutere perché può avere un’importanza linguistica e poi, in chiusura, converrà fare un breve riferimento anche al manoscritto in cui questo testo è conservato. Il testo degli Statuti è interessante dal punto di vista linguistico perché, della produzione scritta in volgare in Basilicata per i secoli XV e XVI , non abbiamo una fittissima documentazione.
Testi lucani quattro-cinquecenteschi, recuperati in archivi, sono stati pubblicati nel 1983 da Anna M. Compagna (Testi lucani); altri testi sono stati editi in tempi successivi, ma in effetti possiamo sostenere che, nonostante la ricchezza dei materiali acquisiti con i lavori di A.M. Compagna, rimangono ancora da esplorare molti settori della lingua scritta in Basilicata. La lingua dei documenti d’archivio Þn qui editi presenta un limite fondamentale, limite per cui non riusciamo a fare analisi specifiche che ci riportino ai singoli centri in cui sono stati scritti. Si tratta di una lingua ufficiale che prende il posto del latino anche se questo conserverà ancora il primato a lungo. Ma il volgare adottato è quello di scrittura di destinazione pubblica, quindi, non ha carattere privato e assume una sua veste formale. Infatti si tratta di un volgare di persone che scrivono per mestiere, siano essi scrivani o notai o giudici. Sono persone che, scrivendo, ripetono formulari correnti, che, come dire, non lasciano molta fantasia alla loro scrittura. D’altra parte, però, sono scritti che aprono una piccola finestra sulla realtà storico-linguistica.
È vero che sono in gran parte, formulari, ma sono scritti che dovevano essere capiti da un numero relativamente ampio di lettori e , sicuramente, da un numero molto più ampio di ascoltatori. Dobbiamo immaginare una situazione in cui gli alfabetizzati non erano molti ma erano, invece, numerosi coloro che erano interessati a conoscere il contenuto degli Statuti che potevano essere letti ad alta voce. Così probabilmente accadeva a Pescocostanzo, dove gli Statuti erano scolpiti in piazza nella pietra; l’esposizione aveva un valore simbolico, dato che quelli che potevano leggere il testo erano pochi. Nella fruizione pubblica degli Statuti era indispensabile la loro comprensibilità; bisognava parlare di cose a tutti note e usando parole che tutti potessero capire. Ecco perché, nonostante il loro andamento formulare, in questi Statuti, quando si parla di cose concrete, vengono fuori le parole correnti, parole di tutti i giorni ma che ci rimandano al lessico comune a buona parte dell’Italia meridionale.
Possiamo in effetti distinguere un lessico campano da uno laziale ma diventa più difficile distinguerne uno campano-meridionale da uno lucano, in documenti di questo genere. Ci dobbiamo accontentare di ritrovare parole relative ad un’area che ha una sua omogeneità interna, che deriva dall’essere un’area dello stesso regno. Insieme con un lessico interessante, si affacciano anche notevoli fatti fonetici. Citerò soltanto alcuni esempi: abbiamo trovato "monezzaro", parola frequente nei dialetti, ove spesso diventa pure toponimo, anche se qui mi pare usata ancora nel senso generico, riferito alla sua funzione più che ad una località. Troviamo parole come "sepàle" cioè "siepe"; oppure il tipo lessicale "bottare" invece che gettare. In uno di questi articoli c’è l’alternanza tra il tipo "bottare" e "vottare" (gettare) e troviamo anche parole di ampia diffusione come "protosino" per prezzemolo, "bozzieri" per macellai. Per inciso si può fare la riflessione che "bozzieri" ci rimanda ad un’area meridionale, non napoletana visto che "bozzieri" è la forma che si ritrova ancora nel dialetto siciliano per "macellaio", laddove, in altri dialetti, anche appenninici, prevale "chianchieri". Notiamo cioè che vi è ancora, nel ’400 e ’500, una sensibile presenza di elementi comuni fra lessico siciliano e lessico dell’Italia meridionale. Nel testo troviamo altri elementi diffusi in varie zone delle regioni meridionali, come la chiusura metafonetica, quella per cui troviamo forme come "le persune", "li patruni", "li spatulaturi", in cui ricorre "u" in luogo della "o". A volte sembra affermarsi nel testo la volontà di eliminare alcuni fatti linguistici avvertiti come dialettali. Ad esempio è raro il dittongo, che ritroviamo in "porcielli", "panettieri" ma troviamo normalmente "porco", laddove in dialetto avremmo potuto trovare "puorco" o altre forme del genere. Un fatto fonetico che, invece, non viene eliminato è quello che si presenta con la grafia "cz", quello per cui troviamo "venacza seu fecza"; è il tipo fonetico e lessicale meridionale per "vinaccia" o "feccia". È interessante la presenza di una dittologia sinonimica di due parole che secondo il testo significano la stessa cosa. La presenza della glossa fecza che spiega venacza fa pensare che gli articoli potevano essere copiati da uno Statuto all’altro per essere poi all’occorrenza spiegati. È chiaro che, per esempio, dove non v’era l’uso del lino non era riportato l’articolo relativo al lino, e, nella trasmissione, un poco come è accaduto anche per gli Statuti delle Confraternite, si aggiungeva qualche chiarimento laddove fosse necessario, per cui "vinaccia", veniva affiancata da "fezza", che è il tipo più diffuso e dialettale.
Questa degli Statuti è una scrittura professionale. La persona che scrive o riprende questi Statuti vuole scrivere in una lingua che sia presentabile in pubblico e ufficiale. È una lingua scritta con piena consapevolezza; oltretutto si tratta di una lingua legislativa, che determina una serie di proibizioni, di sanzioni, per cui deve risultare molto chiara. Per questo motivo ad un certo momento storico, si decise di usare il volgare al posto del latino, perché esso cominciava a prestarsi ad ambiguità.
D’altra parte l’uso del volgare ci fa anche capire che c’erano, nella Basilicata del XVI secolo, persone capaci di leggere il volgare ma forse non più in grado di leggere il latino. È un elemento interessante, perché di norma nella scuola medievale si studiava prima il latino, mentre soltanto alcuni cominciavano a leggere e scrivere anche in volgare; esattamente il contrario rispetto a quello che potremmo pensare, i più bravi erano quelli che si dedicavano alla letteratura in volgare. Il volgare, quindi, era usato in letteratura ma aveva anche questi scopi pratici. Se noi pensiamo alla storia del volgare in Italia alla fine del ’500, sappiamo che già P. Bembo ha scritto le sue "Prose" da circa ottanta anni, ma non ci dobbiamo meravigliare se di questa lingua bembesca non troviamo traccia in questi Statuti. Perciò potremmo giudicare eccessivamente rozzi questi testi. In realtà, non si tratta di rozzezza ma di linguaggio settoriale. La lingua letteraria era la lingua di coloro che avevano interesse e interlocutori di un certo tipo. Scrivevano alla maniera di Petrarca e di Bembo ma per motivi di eleganza stilistica; qui invece si trattava di applicare una scrittura direttamente e immediatamente comunicativa, una scrittura che avesse una sua comprensibilità e regole diverse dalle regole della letteratura. Questo però non vuol dire che scrivessero come parlavano, perché stavano attenti a scrivere bene un testo ufficiale di natura giuridica , ma scrivevano in una lingua che avesse una sua dignità formale, dignità data dai formulari. Possiamo sostenere che per un testo giuridico essi rappresentano ciò che lo stile rappresenta per un testo letterario, solo che non si imita Boccaccio ma si imitano formule di tipo giuridico. Queste scritture risentivano molto della produzione latina. In genere, chi scriveva testi di questo tipo aveva una familiarità con il latino giuridico, quello notarile, che non era il latino di Cicerone né il latino medievale ma un latino di uso corrente. Si puntava alla comprensibilità più che all’eleganza ma non si poteva fare a meno di riportare anche caratteri linguistici della lingua di tutti i giorni, anche se si mirava, per esempio, a limitare l’ingerenza di alcuni fatti fonetici troppo popolari. È questo un testo che ci fa scoprire alcune caratteristiche della lingua ufficiale usata nel regno di Napoli, che dobbiamo analizzare tenendo conto di altri tre punti di riferimento: il dialetto, anche corrente; il latino, perché in quest’epoca vi è un travaso continuo tra latino e volgare (in genere siamo abituati a pensare a compartimenti stagni, invece chi dominava la scrittura dominava le due lingue, salvo specializzazioni, di tipo mercantile o, come qui, di tipo giuridico-notarile) ; e l’italiano letterario. Proprio nella zona, a Marsicovetere, verso il 1570, venne stilato un testamento in cui qualcuno lascia fra i propri beni sia un testo di "Ars notaria" sia un libro detto "Furioso". Era un notaio che leggeva l ’"Orlando Furioso" eppure sicuramente questo notaio , quando scriveva, dimenticava la lingua dell’Ariosto e scriveva come aveva imparato a scrivere facendo il notaio. La situazione cambia nel corso dei secoli e cambia ancora da un testo all’altro. Se passiamo dalla scrittura professionale alle scritture private o a scritture legate alla trascrizione della lingua parlata, allora troveremo una più ricca presenza di caratteristiche linguistiche tipiche, un lessico più vario e ricco. Pensiamo a ciò che accadrebbe se avessimo per la stessa zona di Marsico testi tre-quattrocenteschi come lettere di mercanti, come accade per la Puglia settentrionale, o se avessimo lettere private, scritte non per intenzione pubblica ma soltanto per parlare di fatti privati; oppure, e occorre frugare negli archivi, processi in cui siano presenti e coinvolti personaggi della zona, anche di estrazione popolare, le cui deposizioni venivano trascritte con una certa fedeltà, visto che essa rientrava fra gli obblighi del verbalizzatore. Abbiamo qualcosa del genere per i monasteri greci del Sud, dove un nunzio interroga dei frati, li interroga sulle loro malefatte, che sono poi veramente tante, e trascrive le frasi che costoro pronunziano. Abbiamo le verbalizzazioni di un viaggio che va dalla Calabria alla Campania cilentana e, nel seguire il viaggio del nunzio, scopriamo che i dialetti trascritti cambiano, da zona a zona. Testi di questo genere e non formulari potrebbero aprirci alla realtà quotidiana linguistica più viva. Per la Basilicata ci è rimasto un testo di questo tipo, mi sto riferendo alle piccole annotazioni di fatti e cronache avvenuti nel monastero di S. Elia di Carbone, episodi come il racconto di un fulmine che colpisce il campanile e di un frate, che rimane tramortito per terra. Eventi del genere sono trascritti dall’archimandrita, il quale, però, non potendo contare su una tradizione scrittoria in volgare, scrive in caratteri greci, adottando un alfabeto di prestigio per riferire fatti di vita quotidiana. Testi come questi ci aprono uno spiraglio su di una realtà linguistica quotidiana. Anche l’analisi di testi come gli Statuti tuttavia completano un quadro. Dobbiamo dire che il lavoro di Antonio Lotierzo ci permette di valutare il cambiamento della lingua nel corso del tempo, perché di questa lingua ufficiale che leggiamo nel testo del Cinquecento possiamo seguire l’evoluzione andando a leggere, ad esempio, i successivi "Conti comunali" del Settecento e lo "stato discusso" del 1818. Constatiamo come si stabilizza un italiano ufficiale, burocratico che ha avuto un lontano antenato nel testo dello Statuto della bagliva. Un veloce accenno al manoscritto.
Il prof. Lotierzo ha indicato le fortunose e fortunate circostanze del suo ritrovamento. È una copia, probabilmente del fine Seicento, ma il testo è cinquecentesco. Per cautela di studioso, Lotierzo scrive che non possiamo escludere che questo testo sia stato alterato dal copista, volontariamente o involontariamente. Tale eventualità, se pure si è realizzata, sicuramente non si è realizzata consapevolmente, poiché un adattamento sarebbe stato radicale, più a tappeto. Invece, leggendo questo Statuto e anche gli altri giunti in copie coeve o posteriori, vediamo che la lingua, come per quelli di Avigliano, qui citati, è piuttosto stabile. Possiamo trovare, certo, un "il" invece che un "lo", "spatolaturi" invece che "spatulaturi", ma si tratta di piccole variazione di copista. Tenderei dunque ad escludere una manipolazione volontaria, mentre gli errori di copista richiederebbero un altro discorso e non possiamo valutarli in quanto non ci è giunto l’originale.


 
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